Come ci è spesso capitato di osservare durante l’osservazione di sedute psicoterapeutiche videoregistrate, i disturbi alimentari di tipo restrittivo, con o senza condotte di eliminazione, appaiono sempre più frequentemente caratterizzati da sfumature di tipo isterico, mentre osserviamo una minore frequenza di modi di essere patologici tipo AN che secondo la nosografia psichiatrica classica andrebbero inquadrati nell’area del disturbo borderline della personalità.
Come sempre, il problema della etichetta diagnostica e quello delle categorie umane sono per noi meno interessanti rispetto a quello dell’esperienza individuale e della sua configurazione narrativa.
In quest’ottica, il tema della body image è cruciale perché dovrebbe – e dico dovrebbe – rendere conto di alcuni aspetti fondamentali dell’ipseità delle persone con disturbi dell’alimentazione.
Purtroppo, la necessità calcolante del rigore scientifico obbliga il ricercatore a misurare secondo quantità (a peso…appunto) questa importante variabile esperienziale (l’esperienza che ognuno di noi fa del proprio corpo), con il risultato di sacrificare lo studio dell’esperienza del corpo che si è a favore della misurazione di cognizioni/riflessioni, più o meno centrate, sulla stima cognitiva/percettiva delle proprie dimensioni corporee.
Il risultato? Non c’è accordo sulla misurazione della body image (e nemmeno su cosa essa sia una volta che viene operazionalizzata in questionari o test percettivi), e i risultati delle ricerche appaiono fortemente contrastanti. Es.: (Gardner e Brown, 2013).
Body image is being viewed increasingly as a multidimensional
phenomenon. It extends well beyond what early investigators
conceptualized “…as the picture of our own body which we form in
our own mind” (Schilder, 1950). There is no universally accepted
conception of exactly what body image consists of, and today it is
viewed from several wide-ranging perspectives including sociocultural,
evolutionary, genetic and neuroscientific, cognitive-behavioral,
and feminist viewpoints (Cash and Smolak, 2011).
Further complicating matters is the diverse way in which body
image has been measured. Nowhere is this more true than in the
measure- ment of the perceptual aspect of body image, which
involves how accurately a subject estimates their body size.
Gardner and Brown (2011) have reviewed these differing
perceptual methodologies. Early studies sometimes used image
marking techniques, wherein subjects were ask to draw their body
on a piece of paper, while others required subjects to adjust the
horizontal distance of two points of light. Other studies used
distorting photographs or had subjects view themselves in an
adjustable distorting mirror.
More recently, technological advancements have allowed
investigators to use video distortion techniques, in which subjects
can adjust an image of their body size wider or thinner. These
different techniques had the unfortunate consequence of yielding
diverse findings, particularly when it involved the perceptual
aspects of body size estimation in eating disorder subjects (Cash
and Deagle, 1997). The purpose of this article is to summarize the
more contemporary findings relative to how accurately individuals
with anorexia nervosa (AN) judge their body size.
Per favorire ai lettori lo sviluppo di una critica costruttiva circa questo tema, abbiamo messo nell’area riservata del nostro sito diversi recentissimi articoli scientifici, compresa una review del 2015 pubblicata su Lancet Psychiatry da Zipfel e collaboratori (vedi Stay Alert nell’area riservata).
Nell’insieme trovate ricerche a favore e ricerche contro la presenza della famosa distorsione della body image in pazienti con AN. Vi preghiamo di concentrarvi anche e soprattutto sulle metodologie d’indagine della BI, anche in considerazione del problema della misurazione dell’esperienza di sé (vedi sopra).
In ultimo, in alcuni di questi articoli troverete alcune riflessioni, frutto di ricerche, sull’efficacia dei trattamenti dei pazienti AN. Anche in questo caso, tre riflessioni critiche:
1) La psicoterapia è davvero «modellizzabile» in protocolli d’intervento?
2) E se così fosse, si tratterebbe ancora di psicoterapia o di riabilitazione psichiatrica (con tutto il rispetto per quest’ultima disciplina)?
3) Può esistere un metodo scientifico per la psicoterapia che non si traduca nella sua riduzione a un impersonale schema d’azione?