Il Gioco d’azzardo patologico è stato inserito per la prima volta nel DSM-III e oggi viene oggi classificato nella sezione dei –Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction del DSM-5.
La comunità scientifica inquadra il gioco d’azzardo come “attività nella quale si mette a rischio qualcosa di valore nella speranza di ottenerne una di valore superiore” (Grant e Potenza, 2010).
In realtà il fenomeno in questione è decisamente più complesso. Così come accade per la dipendenza da sostanze, i giocatori patologici non di rado giustificano la dipendenza dal gioco descrivendola come esperienza “stimolante/attivante”. A tal proposito sono interessanti le evidenze empiriche sulla correlazione tra gioco d’azzardo e attivazione del sistema simpatico (Baudinet, J., Blaszczynski, A., 2013; Pascual-Leone, A., Campeau, L.J., Harrington, S.J., 2012). È stato dimostrato, inoltre, che i soggetti che soffrono di ludopatia, durante i momenti di gioco, esperiscono un aumento dell’arousal significativamente maggiore rispetto ai non-giocatori (Pascual-Leone, A., Campeau, L.J., Harrington, S. J., 2012). In particolare, la misurazione dell’attivazione fisiologica indica che la frequenza cardiaca aumenta e si mantiene più elevata per tutta la durata dell’attività, specialmente se il gioco coinvolge la scommessa di denaro (Coventry and Hudson, 2001; Ladouceur et al., 2003; Meyer et. Al., 2000; Wulfert et al., 2005).
Ma, da un punto di vista fenomenologico, alcune esperienze di gioco d’azzardo descritte dai soggetti non sembrano implicare una ricerca attiva di tipo “stimolante”, bensì una sorta di “deattivazione”: in questo senso il gioco rappresenterebbe una sorta di “spegnimento di sé”, una forma di sedazione. Uno studio di Gainsbury e colleghi (2015) che prende in considerazione il gioco nel contesto del casinò online, mostra come una delle motivazioni preponderanti che spingono al gioco sia evadere dai problemi della quotidianità. Anche Natasha Schüll (2002) e Hing e Russel (2016) hanno evidenziato questo aspetto: in particolare sembra essere il genere femminile quello più propenso a cadere nel loop della dipendenza come forma di evasione dai problemi della vita quotidiana.
Il caso che risulta più esemplificativo, in questo senso, è quello delle slot-machine. Questi strumenti offrono un’esperienza che i giocatori patologici definiscono come “totalizzante”, un modo per estraniarsi dal mondo e dai problemi della vita quotidiana, anche per diverse ore consecutivamente.
A tal proposito, l’antropologa Natasha Schüll, nel suo libro Addiction by Design (2012), illustra con efficacia il fenomeno del gioco con le slot-machine: <<non è come comprare il biglietto del cinema o fare shopping e poi tornare a casa. Giocare con le slot significa immergersi in un flusso continuo, dove le persone perdono coscienza del tempo e dello spazio e la loro capacità di prendere decisioni scivola via durante l’esperienza.>>
Interessante l’esperienza riportata da un’impiegata di un hotel di Las Vegas, dipendente dal gioco ai videopoker, che in un’intervista alla Schüll confessa: <<La cosa che la gente non capisce è che io non gioco per vincere>>. Lo scopo è quello di <<continuare a giocare, rimanere nella zona di estraniamento della slot, dove nient’altro conta.>> (Shüll, 2012).
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