Il termine pica deriva dal latino “gazza”, un uccello che si caratterizza per la tendenza ad appropriarsi ed ingerire oggetti non commestibili. Secondo il DSM-5, la caratteristica principale della pica è la persistente ingestione di una o più sostanze non commestibili, per un periodo di almeno 1 mese (Criterio A), che risulti sufficientemente grave da giustificare l’attenzione clinica. Solitamente non vi è avversione per il cibo in generale. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili, deve essere inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo (Criterio B) e non deve far parte di una pratica culturalmente sancita o socialmente normata (Criterio C).
I tassi di prevalenza non sono chiari, poiché si tratta di un disturbo non comune nella popolazione generale. Le stime risentono, inoltre, della reticenza da parte dei soggetti considerati “normotipici” a parlare di eventuali abitudini alimentari poco comuni. Spesso, infatti, la pica giunge all’attenzione clinica solo in seguito a complicazioni di natura strettamente medica, quali, ad esempio: ostruzioni intestinali, forte perdita di peso, avvelenamento o infezioni.
Secondo quanto riportato nel DSM-5, l’esordio della pica può verificarsi in età infantile, in adolescenza oppure in età adulta, nonostante sia più frequente in età infantile. Tale comportamento è stato osservato con minore frequenza negli uomini rispetto alle donne (Rose, Porcerelli & Neale, 2000; Iorio, Prisco & Iorio, 2014). Durante la gravidanza aumenterebbe la probabilità di manifestare il disturbo.
I disturbi più comunemente in comorbilità con il picacismo sono le patologie dello spettro autistico, a disabilità intellettiva e, in misura minore, la schizofrenia e il disturbo ossessivo compulsivo (APA, 2013/2014). Il picacismo è stato, inoltre, associato all’anoressia nervosa e alla depressione (Yalug, Kirmizi-Alsan & Tufan, 2007). Secondo altri autori, si ipotizza l’appartenenza del picacismo allo spettro dei disturbi ossessivo compulsivi (Hergüner, Özyıldırım & Tanıdır, 2008; Bathia & Gupta, 2009).
A seconda della sostanza ingerita, la pica assume etichette diagnostiche differenti: geofagia (ingestione di terra), litofagia (ingestione di pietre), tricofagia (ingestione di capelli o lana), amilofagia (ingestione di amido), pagofagia (ingestione di ghiaccio), xilofagia (ingestione di legno), ecc.
La paziente descritta (per l’approfondimento si rimanda al materiale presente nell’area riservata) riporta una sintomatologia che soddisfa tutti i requisiti per poter effettuare una diagnosi di xilofagia. La donna, quarantanovenne, giunge all’osservazione clinica in un momento di profonda crisi esistenziale. Durante i primi colloqui, con modalità piuttosto peculiare, riferisce l’abitudine ad ingerire gli scarti di legno delle cassette per la frutta prodotte nell’azienda di famiglia presso la quale lavora.
Risulta doveroso sottolineare che la sintomatologia della paziente in oggetto rappresenta una condizione molto rara: ad un disturbo già di per sé poco diffuso, si associa un’età di insorgenza atipica e l’assenza di disturbi in comorbilità; non sussistono infatti i requisiti per poter effettuare ulteriori diagnosi di tipo nosografico descrittivo.
L’ipotesi più accreditata circa l’eziologia del disturbo sembra propendere verso la teoria della carenza nutrizionale (Bhatia & Kaur, 2014). Tale teoria suggerisce che gli enzimi responsabili della regolazione dell’appetito, alterati principalmente da una carenza di ferro o zinco, innescherebbero specifiche e non comuni inclinazioni alimentari. Alla base della manifestazione del picacismo ci sarebbe, dunque, una carenza di ferro, di zinco o di altre sostanze nutritive (es. vitamine del gruppo B e C).
La quasi totalità degli articoli presenti in letteratura ha infatti evidenziato una correlazione tra la pica e la carenza di ferro (Borgna-Pignatti & Zanella, 2016). Una recente metanalisi condotta prendendo in considerazione 83 ricerche (6407 individui con pica e 10277 appartenenti ai gruppi di controllo), ad esempio, ha associato il picacismo all’anemia e ad una minore concentrazione di zinco con una probabilità 2.35 volte superiore rispetto ai gruppi di controllo (Miao, Young & Golden, 2015). Nella maggior parte dei casi, un trattamento a base di ferro e a volte anche un semplice integratore multivitaminico (es. solfato ferroso), sembrerebbe bloccare il desiderio di ingerire sostanze non commestibili e condurre ad una remissione del disturbo. (Pace & Toyer, 2000; Auerbach & Adamson, 2016).
Alla luce di quanto presente in letteratura, si è resa manifesta la necessità di impostare un lavoro in equipe con il medico di medicina generale per poter effettuare alcuni approfondimenti diagnostici. Come sostiene Liccione (2012, p.28), infatti, “la neuropsicopatologia, piuttosto che essere rigidamente suddivisa secondo accidenti organici o eventi psicologici, può trarre beneficio dalla dialettica tra causalità fisica e motivazione umana, tenendo conto che quest’ultima è comprensibile soltanto attraverso la mediazione della storia di vita”.
Il risultato degli esami ematici, in linea con la letteratura scientifica, ha evidenziato un’importante anemia (25 µg/dL a fronte di un range tra 50 e 100 µg/dL), per la quale è stato prescritto un integratore vitaminico (Ferrograd compresse 105 mg – principio attivo: solfato ferroso), da assumere contemporaneamente alla prosecuzione del percorso psicoterapeutico.
La peculiarità del sintomo necessitava di un ulteriore approfondimento diagnostico, reso però difficoltoso dalla scarsità di articoli che indagano il disturbo secondo un approccio più specificatamente fenomenologico. Come evidenziano Iorio e colleghi (2014), infatti, “le argomentazioni cliniche sulla pica si limitano ad esaminarne l’inquadramento diagnostico o a evidenziarne la correlazione con altre condizioni psicofisiche, trascurandone il profilo dinamico di sviluppo. Trascurando, in altri termini, il Chi a cui l’esperienza stessa appartiene.
Utilizzando l’arco neuropsicopatologico, così come formalizzato da Liccione (2011, p.108-109), si è cercato di rendere conto della sintomatologia della paziente nella sua globalità: un primario e basilare disturbo dell’ipseità (componente non storica), unito all’anemia riscontrata grazie agli esami medici (da intendersi come ulteriore fattore non storico) avrebbe fatto da sfondo alla manifestazione di un disturbo inquadrabile tra i disturbi del comportamento alimentare, emerso in un particolare momento di vita della paziente (componente storica).
Per approfondire l’argomento (andamento del percorso psicoterapico e indicazioni fornite dalla ricerca di base) si rimanda all’area riservata del sito www.slop.it.