Il tempo non è un accessorio dell’esperienza ma è l’esperienza stessa che non sarebbe tale se non fosse “costituita” di tempo. <<L’esser-ci, compreso nella sua estrema possibilità d’essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo.>> (M. Heidegger, Il concetto di tempo).
Il “tempo dell’esistenza”, di conseguenza, nulla ha a che vedere con il tempo oggettivo della scienza (quello che controlliamo con l’orologio), ma costituisce la modalità propria dell’esserci dell’essere, cioè è il modo grazie al quale l’esser-ci abita il mondo, e grazie al quale ha facoltà di decidere – parzialmente – la propria collocazione nel mondo stesso (decidere di Sé).
In psicopatologia, questo originario “con-fondersi” di “essere e tempo” appare evidente attraverso l’analisi fenomenologica delle diverse forme di sofferenza psichica.
Pensiamo al panico, condizione nella quale l’esistenza si ri-trova divorata dall’attesa di un’imminente accidente, sia fisico (es. ipocondria) sia di altra natura.
Più in generale, qualsiasi esperienza connotata dall’ansia non sarebbe possibile se non vivessimo continuamente “oltre di noi”. Banalmente, l’ansia per un esame universitario non sarebbe concepibile se non fossimo “pro-gettati”, con sufficiente tensione, verso una certa possibilità di noi/orizzonte d’attesa (laurearsi).
Riassumendo, qualsiasi esperienza non sarebbe tale se l’esser-ci non fosse un “avere da essere”, ossia, costitutivamente, sempre “oltre se stesso”, in continuo divenire.
Esiste, però, una condizione esistenziale dove si osserva uno stravolgimento della temporalità caratterizzato dal venire meno di questo slancio: la melanconia.
Ci troviamo di fronte a un tempo che non scorre più, un tempo congelato al presente e ripiegato al passato, un tempo privato di qualsiasi possibilità di/per Sé.
Quando nulla più ci “tocca”, quando nessuna possibilità ci appare più viabile, ecco che l’unica possibilità è il ritirarsi verso il passato, verso ciò che è stato e che non è più, oppure verso ciò che sarebbe potuto essere ma che non è stato. In questo modo, l’unica apertura possibile al futuro assume i tratti del “bluff”: uno slancio fantasticato verso un futuro che sarebbe potuto essere ma che contemporaneamente non sarà e mai potrà essere.
Binswanger, non a caso, sottolinea la tipicità del linguaggio ricorsivo del melanconico che è colmo di <<se>>, <<se avessi fatto/avuto>>, <<se non mi fossi comportato in quel modo>>, ecc. attraverso il quale il melanconico rifigura un passato ipotetico che non può che dischiudere illusorie possibilità di Sé.
Una vita senza tempo è una vita che è stata privata di senso e non è più un’esistenza. Alla luce di quanto detto, il tempo non può essere considerato una facoltà dell’intelletto, una categoria a priori attraverso la quale piegare la realtà (vedi Kant), ma, al contrario, la modalità d’essere più propria dell’esser-ci.
Heidegger insegna che il linguaggio – quello poetico – “svela l’essere”. Affidiamoci allora alle parole di Borges che, forse, meglio di qualunque speculazione filosofica, ci aiuteranno nella comprensione del fenomeno-tempo: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».