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Lo sviluppo della consapevolezza di Sé è un tema di grande interesse per diverse discipline teoriche ed empiriche. Non si tratta di un concetto univoco e non esiste alcun consenso su cosa significhi essere/sentirsi self-conscious. Al contrario, la letteratura psicologica, neuroscientifica e filosofica sono sature di definizioni complementari, alternative e nettamente conflittuali di self-consciousness (Grunbaum & Zahavi, 2004).

In psicologia dello sviluppo, gli approcci mainstream ne hanno affrontato lo studio da una prospettiva teorista, da cui l’elaborazione di modelli predittivi. In quest’ottica, la consapevolezza di sé è intesa come una capacità che si manifesterebbe secondo tappe evolutive (identificabili in stadi o livelli di complessità crescente) conseguenti allo sviluppo senso-motorio, cognitivo e linguistico dell’infante e del bambino. I principali autori di riferimento hanno sostenuto che il livello corrispondente al riconoscimento di sé allo specchio (a partire dai 18 mesi) e, successivamente, all’acquisizione di un senso di continuità/ permanenza di sé nel tempo, sarebbero resi possibili da “processi” di maturazione rappresentazionale (Povinelli, Landau & Perillaux, 1996).

Per i fenomenologi, invece, l’esperienza in prima persona offre un accesso immediato e non rappresentazionale a noi stessi. La self-awareness è considerata una condizione della coscienza fenomenica, del tutto pre-riflessiva (Zahavi, 2014). Pur non negando, naturalmente, che esistano forme di self-awareness “theory and language dependent”, costituite nei processi intersoggettivi, la primitive self-awareness è considerata indipendente dallo sviluppo concettuale. Contrariamente a quanto sostenuto dai primi teorici dello sviluppo come Piaget e Mahler, le ricerche sulla self-awareness di Philippe Rochat (2004), evidenziarono che i neonati manifestano sin dalle prime settimane di vita un senso di sé minimale, dimostrando di percepire il proprio corpo come differenziato, situato e agente.

Ben prima di ragionare sulla theory of mind, i bambini sviluppano una Self-with-the-other awareness (see., Trevarthen & Aitken, 2001; Reddy, 2008) o co-awareness (Rochat, 2004), evidente sia dalle inclinazioni a coinvolgersi molto precocemente quanto intensamente nelle interazioni sociali (e.g., “the social smile”, imitazioni, proto-conversazioni) sia dalla ricchissima fenomenologia di emozioni self-conscious del primo anno di vita (see for a review Draghi-Lorenz et al., 2001). In una prospettiva heideggeriana, queste forme di co-awareness sono rese possibili dal con-esserci originario.

Una ricerca più recente (Kristen-Antonow, Sodian, Perst, & Licata, 2015), evidenzia un developmental link tra la precoce responsività del bambino nei confronti del mondo sociale e la successiva self–awareness, mettendo in luce che i modi di rispondere in un gioco di imitazione sociale e durante lo Still Face task sono altamente predittivi della capacità di riconoscersi allo specchio (a 24 mesi) e del senso di continuità personale a 4 anni.

Analogamente, un interessante studio di Rochat e colleghi (2012) evidenzia come il contesto sociale funga da mediatore della tendenza a togliersi lo sticker dalla testa nel mirror task (Rochat et al., 2012), comportamento considerato come l’espressione di un‘ esperienza di sé e non di un riconoscimento di sè (Rochat, 2003).

In questo scenario di riferimento, uno studio appena pubblicato sulla rivista Consciousness & Cognition dal nostro gruppo di ricerca (Zocchi e colleghi, 2018) ha considerato l’effetto della familiarità -data dalla presenza della mamma durante la procedura sperimentale- sul senso di continuità personale di un gruppo di bambini di tre anni.

I risultati delle analisi statistiche hanno confermato che fare esperienza in un contesto di familiarità si riflette positivamente sul compito di riconoscimento di sé nel tempo (Povinelli & Simon, 1996). In altre parole, i bambini sono dei migliori self-recognizer in presenza della madre rispetto che in presenza di uno sperimentatore estraneo. Nel contesto familiare il bambino si ri-trova, pre-riflessivamente, in una certa tonalità emotiva, intesa come esistenziale , ovvero come “unità avvolgente di vita e mondo” che ha già aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo possibile un dirigersi verso (Bollnow, 2009).

Diversi studi in letteratura hanno evidenziato che in situazioni si joint engagement i bambini tendono a manifestare capacità che in condizioni diverse non emergono (Moll, Carpenter & Tomasello 2007). Come discusso da Zahavi & Rochat (2015), dai 14 mesi, i bambini sanno riconoscere la shared experience come speciale e sanno discriminare tra objects experienced ‘we’ as opposed to ‘I’ alone (Moll, Richter, Carpenter & Tomasello 2008).

Per il bambino, il caregiver rappresenta una possibilità di accesso a sé e al senso umano condiviso (Arciero & Bondolfi, 2009); egli è soprattutto partner di risonanza congiunta, sorgente di con-senso. In questo senso, il bambino e la sua mamma condividono aperture di mondo: il mondo è più comodo e abitabile in presenza della mamma.